Natura professionale della malattia: è competenza esclusiva medico legale

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Il giudizio sulla natura professionale della malattia è funzione medico-legale e implica l’apprezzamento delle caratteristiche peculiari della persona (III Cap. quarta parte).

Ricollegandoci a quanto scritto domenica scorsa oggi si concluderà il III capitolo sul Problema dei valori limite alle malattie professionali e gerarchia delle fonti:

Non appare  affatto  fuori tema affrontare il problema dei Valori Limite, anche in questo ambito, laddove il medesimo Istituto INAIL, nella sua circolare 70 del 2001, ha ribadito che: “ Omissis. Il giudizio sulla natura professionale della malattia, tabellata e non, è funzione, quindi, squisitamente medico – legale e, come tale, implica l’apprezzamento delle caratteristiche individuali, peculiari e non standardizzabili, della persona.  Ciò significa, tra l’altro, che valori limite e/o indicatori statistici di rischio hanno per il medico un valore orientativo ma non possono assurgere a elemento dirimente per il giudizio, stante l’esigenza di considerare la risposta individuale del soggetto alla causa nociva, diversa essendo la capacità di resistenza di ciascun organismo.  –  Il sistema di tutela prevenzionale e quello di tutela assicurativo-previdenziale delle tecnopatie, pur avendo ovviamente punti di convergenza, restano concettualmente distinti ed autonomi, diverse essendo la ratio e le finalità.  – Ciò significa, tra l’altro, che i criteri normativamente enunciati a scopi prevenzionali hanno valore vincolante per le aziende che sono tenute ad uniformarsi, ma non possono condizionare la valutazione medico-legale sul danno alla salute che il singolo lavoratore può subire nonostante l’adozione delle prescritte misure prevenzionali.- Nell’ambito del sistema tabellare la presunzione legale d’origine è superabile soltanto con “la prova contraria” che deve essere rigorosa e sempre riferita al caso concreto e che, dunque, può scaturire soltanto dall’accertamento medico – legale.   Omissis “.

Le Tabelle delle Malattie Professionali Gestione Industria e Gestione Agricoltura non  prevedono, infatti,  Valori Limite,  eccetto che nella dizione  di cui all’ultimo punto della  Voce n. 75   della Gestione Industria  e dell’ultimo punto della Voce n.  19 della Gestione Agricoltura  (   “   Altre lavorazioni svolte in modo non occasionale che comportano l’esposizione personale professionale quotidiana o settimanale, a livelli di rumore superiori ad 80 dB ), perché ha così voluto il legislatore. La previsione pertanto di non raggiungimento del rischio lavorativo tecnopatico introdotto in Documenti, Linee Guida, Linee di Indirizzo, che pongono Valori Limite oppure Valori di Esposizione o Metodiche di carattere quantitativo / probabilistico, che non rispettano la gerarchia delle fonti,  sono del tutto arbitrarie  ed illegittime e contrastano con lo spirito della Sentenza n 179 /1988 della Corte Costituzionale e con l’articolo 10 del D. Lgs. n. 38/2000.   Appare lapalissiano che una circolare o una Linea Guida o una Linea  di Indirizzo non possono determinare quella che i giuristi definiscono una “ reformatio in peius “, tanto più su un tema, quello dei Valori Limite in cui una delle massime autorità mondiali sulla formulazione dei Valori Limite – TLV ( ACGIH – Associazione Governativa degli Igienisti Industriali degli USA ) si è più volte pronunciata, ed anche nella pubblicazione dei suoi  più recenti Valori Limite: “  I TLV sono stabiliti in base ai dati disponibili ricavati dall’esperienza nel campo dell’igiene industriale, da studi sull’uomo e sugli animali e, quando possibile, dalla combinazione dei tre fattori, come indicato nelle loro Documentazioni. Come per tutti i TLV, questi limiti sono stabiliti per l’uso nella pratica dell’igiene occupazionale e debbono venire interpretati e applicati solo da parte di persone esperte in tale disciplina. Essi non possono essere utilizzati tal quali, o modificati, per essere impiegati: 1) per la valutazione o il controllo del livello degli agenti fisici negli ambienti di vita, oppure 2) come prova o controprova dell’esistenza di un danno fisico esistente  “ .   E ancora: “ Omisss.  A causa delle ampie variazioni legate alla sensibilità individuale, l’esposizione di un determinato soggetto a livelli pari ai TLV o addirittura inferiori, può produrre disturbi, aggravamento di condizioni preesistenti o occasionalmente anche un danno fisiologico. Alcuni individui possono anche essere ipersensibili o d’altra parte inusualmente reattivi ad alcuni agenti fisici   ( e chimici ) presenti nell’ambiente di lavoro, a causa di una varietà di fattori quali la predisposizione genetica, la massa corporea, l’età, le abitudini personali ( ad esempio fumo, alcool o altre droghe ), farmaci o esposizioni precedenti o attuali. Questi lavoratori possono non essere sufficientemente protetti contro effetti sfavorevoli pe la salute determinati da esposizione a certi agenti fisici a livelli pari o inferiori ai TLV. Il Medico del Lavoro dovrebbe valutare le condizioni alle quali sono necessarie protezioni aggiuntive per questi lavoratori. Omissis “. 

Pertanto, il riconoscimento di una malattia professionale deve effettuarsi sulla base della plausibilità biologica, laddove l’Italia gode di una Normativa che è una sintesi  virtuosa tra Biologia e Diritto, che si è andata consolidando attraverso Sentenze della Corte Costituzionale  e della Corte di Cassazione,  e che non deve essere intaccata da non asseverati  documenti o comportamenti.

Dal punto di vista giuridico, prima di riassumere -seppur schematicamente la attuale posizione della giurisprudenza-, giova rammentare che il  tema dell’accertamento del nesso di causalità è da sempre ampiamente dibattuto in giurisprudenza con riferimento alle malattie professionali.

In origine il predetto accertamento risultava meno complesso di quanto lo sia attualmente, considerato che l’articolo 3 del D.P.R. n.1124 del 30 giugno 1965 espressamente limitava l’indennizzabilità alle malattie professionali indicate nella apposita tabella e contratte a causa e nell’esercizio delle lavorazioni anch’esse specificate nella medesima tabella.

A fronte, quindi, di una puntuale correlazione tra una lavorazione e una patologia nosologicamente definita, cioè puntualmente descritta e classificata, al lavoratore era sufficiente fornire la prova di essere stato adibito a quella specifica lavorazione indicata in tabella e di essere affetto dalla patologia correlata.

Quanto al nesso di causalità, trovava, e trova ancora oggi, applicazione, ricorrendo la fattispecie sopra descritta, la presunzione di origine professionale, per superare la quale l’Inail dovrà fornire la prova contraria.

La problematica della prova del nesso di causalità ha, peraltro, assunto una diversa e più complessa articolazione in conseguenza dell’intervento della Corte Costituzionale (C. Costituzionale n.179/1988) con la quale ha dichiarato la parziale illegittimità del sopra richiamato articolo 3, nella parte in cui non prevede che “l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria è obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro”.

Ne é conseguita l’indennizzabilità di ogni patologia di cui il lavoratore riesca a dimostrare l’origine professionale. E questa è la posizione attuale del nostro ordinamento.

Come affermato dalle SS.UU. della Corte di Cassazione (n. 1919/1990) la distinzione tra le malattie comprese nelle suddette tabelle e quelle non comprese rileva esclusivamente sul piano probatorio .

La distinzione tra malattia tabellata e malattia non tabellata rileva, quindi, essenzialmente ai fini della distribuzione dell’onere della prova.

Nel caso delle malattie tabellate sul lavoratore incombe l’onere di provare di essere stato addetto alla lavorazione indicata in tabella e di essere affetto dalla patologia anche essa prevista in tabella. Il nesso di causalità tra lavorazione e patologia è assistito da presunzione legale, come abbiamo già detto, che può essere superata soltanto laddove l’Inail fornisca la prova certa di una diversa causa extra-lavorativa.

Nel caso delle malattie non tabellate, invece, il lavoratore deve provare non soltanto di essere stato addetto a lavorazione che lo ha esposto ad un determinato agente e di essere affetto dalla patologia denunciata, ma anche il nesso di causalità tra l’agente patogeno e la malattia.

La linea di demarcazione tra malattie tabellate e non tabellate, se pur netta in termini concettuali, nel tempo si è di fatto attenuata, quantomeno con riferimento all’onere probatorio, per due ragioni.

La prima è costituita dalla strutturazione dei cicli lavorativi che ha portato ad articolare molte voci di tariffa con la generica indicazione “lavorazioni che espongono a…” e non più con la specifica indicazione di una lavorazione nominativamente individuata.

La seconda è connessa all’emersione di nuove patologie di cui molte a genesi multifattoriale, quali quelle tumorali, rispetto alle quali spesso non si dispone di adeguate certezze scientifiche e che sono in tabella indicate con la generica dizione “malattie causate da…”, seguita dall’agente patogeno indicato nella tabella medesima.

Pertanto, si può sostenere che, nell’ambito delle malattie tabellate, esistono due regimi:

1 quello delle malattie nosologicamente definite, per le quali opera la presunzione legale di origine professionale in modo immediato;

2 quello delle altre malattie, per le quali la tabella non indica la malattia ma l’agente patogeno, per cui occorre accertare caso per caso se la malattia denunciata sia stata causata, secondo le acquisizioni della scienza medica, dall’agente patogeno indicato.

Molte delle “altre malattie” sono aspecifiche e multifattoriali, ossia riconducibili a cause plurime. L’accertamento del nesso di causalità, nelle predette malattie si presenta ancora più complesso, considerato che la patologia denunciata dal lavoratore come professionale potrebbe essere stata causata da un fattore extralavorativo.

Ciò posto, di seguito alcune -tra le tante- recenti pronunzie di merito e legittimità in punto di onere probatorio per risalire alla natura professionale della malattia.

Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 marzo 2021, n. 5816 :  In caso di malattia non tabellata incombe sul lavoratore l’onere di provare il nesso causale tra la malattia e l’ambiente lavorativo.

Tribunale Civitavecchia sez. lav., 30/09/2020, n.474 e conforme 24/06/2020 n. 307: In tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere ravvisata in un rilevante grado di probabilità.

Tribunale Taranto sez. lav., 08/06/2020, n.1020:  In tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata, il lavoratore deve fornire la prova del nesso eziologico e vieppiù di un nesso così stretto tra patologia ed attività lavorativa, tale che la seconda sia conditio sine qua non della prima. Ed il lavoratore altresì deve fornire la prova non in termini di certezza, ma quantomeno di elevata probabilità dell’origine professionale della patologia lamentata. 

Tribunale Milano sez. lav., 28/01/2020, n.191: In materia di malattie non tabellate, il soggetto assicurato che sostenga la dipendenza dell’infermità da una causa di servizio ha l’onere di dedurre e provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell’affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento delle attività svolte. Ove la patologia presenti una eziologia multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell’esposizione a rischio.

Resta inteso che, pur acclarato dalla scienza  che le malattie  professionali complesse (patologie della colonna vertebrale, altre malattie da postura, tumori, etc.) riconoscono cause multiple, sia di origine lavorativa sia da origine extraprofessionale, in concorso tra loro, sia nel determinismo di dette infermità, sia nella loro più precoce insorgenza che nel resto della popolazione generale, il criterio della presunzione legale di origine, laddove ricorrano le circostanze di trovarci di fronte ad una malattia professionale tabellata, non può essere assolutamente messo in discussione, con la pretesa di addossare al paziente assicurato tecnopatico  l’onere  di fornire  di una prova  ardua,   che neppure la scienza è sempre in grado di fornire con estrema precisione, invertendo così il concetto giuridico di inversione dell’onere della prova a tutto danno dell’assicurato”.

Avv. Emanuela Foligno, Dr. Carmelo Galipò, Dr. Carmelo Marmo

Leggi anche le prime tre parti:

Malattia professionale non tabellata: il nesso di causalità

La prova della causa di lavoro grava sul lavoratore: ma quale probabilità deve avere?

Rischio ambientale nelle malattie professionali non tabellate

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